Rave in Italy
di Vanni Santoni
[fonte: https://www.dinamopress.it/news/rave-in-italy/]
Rave in Italy
Sono passati quasi vent’anni dagli albori del movimento free tekno italiano, e negli ultimi mesi una serie di libri in Italia provano a raccontare l’arco storico di quell’esperienza. Tra questi “Rave in Italy” (Agenzia X) di Pablito el Drito che attraverso una serie di interviste e concentrandosi soprattutto sulla scena di Roma, Torino, Milano e Bologna racconta il passaggio dai proto-rave a quello che è stato un vero e proprio movimento militante
Quando, nel 2013, ho cominciato a scrivere Muro di casse, romanzo in cui ho cercato di sintetizzare l’esperienza del movimento free tekno italiano ed europeo, mi sono affidato, oltre alle esperienze mie, di amici, conoscenti e protagonisti storici, a una bibliografia per lo più straniera: oltre ai tanti libri di impianto più puramente filosofico o antropologico, come i cruciali saggi sulla trance di Georges Lapassade o l’ineludibile T.A.Z. di Hakim Bey, o ancora ai saggi dedicati al primissimo (e prettamente inglese) momento della storia dei rave, come Energy flash di Simon Reynolds, solo cinque anni fa la bibliografia puramente “free tekno” contava due libri inglesi – Traveller e raver. Racconti orali dei nomadi della nuova era di Richard Lowe e William Shaw (Shake 1996) e Atti insensati di bellezza. Le culture di resistenza hippy, punk, rave, ecoazione diretta e altre TAZ, di George McKay (Shake 2008) – e due libri francesi, non tradotti in Italia: 3672 la free story di Sarah De Haro e Wilfrid Estève Wilfride Free party. Une histoire, des histories, di Guillaume Kosmicki. A questi si aggiungeva l’unico testo italiano sul tema, Free party: technoanomie per delinquenza giovanile di Francesco Macarone Palmieri, edito da Meltemi nel 2002 e molto centrato sulla scena romana. Le cose sono cambiate rapidamente.
Nel giro di qualche mese, dopo l’uscita di Muro di casse per Laterza, nel 2015, sono arrivati altri tre libri, di impianto e approccio diverso ma tutti scritti da autori della mia generazione, che avevano vissuto le stesse esperienze (in diversi casi, proprio le stesse feste): il romanzo Tekno free doom di Syd B./Gino Roberti (Nobook); il reportage Rave new world di Tobia D’Onofrio (Agenzia X, recentemente ripubblicato in edizione ampliata) e il memoir Kernel Panik: sound against system di Alessandro Kola (Nobook). Due libri potevano essere una coincidenza; quattro sono, evidentemente, un segnale: probabilmente del fatto che, giunto a conclusione un certo arco storico – circa vent’anni: un periodo lunghissimo per una controcultura – chi lo aveva vissuto in prima persona sentiva il bisogno di raccontarlo, anche per rendere possibile una storicizzazione più oggettiva, diversa da quella che arrivava dai media, i quali da diversi anni si erano “accorti” del movimento e lo raccontavano a modo loro – un modo che era sempre poco documentato, quasi sempre distorto e molto spesso criminalizzante. C’era una necessità forte. E infatti non era finita lì. Dopo due anni è arrivato anche Pablito el Drito, nome ben noto a chi ha frequentato la scena del nord Italia, con Once were ravers, romanzo molto vicino a Tekno free doom nel suo inquadrare l’era di mezzo del movimento e i nodi morali che cominciavano a vedersi, anzitutto quello che contrapponeva la possibilità di “fare business” ai valori libertari e ribelli alla base della free tekno. A un anno di distanza, Pablo completa il suo percorso e in qualche modo anche la bibliografia italiana sulle feste, con questo Rave in Italy, che concentra le attenzioni, attraverso una seriie di interviste, sulla scena nazionale degli anni ’90, e in particolare su Roma, Torino, Milano e Bologna, le quattro città che furono, con specificità anche molto differenti, le culle del passaggio dai proto-rave alla free tekno propriamente detta, e quindi della fioritura del movimento nel nostro paese, con l’incontro – e a volte lo scontro – con le sottoculture preesistenti e con coloro che sulla pratica dell’occupazione e della liberazione degli spazi avevano già costruito altri percorsi.
Chi come me faceva base a Firenze ricorda bene cosa rappresentassero quelle città nella fase storica in cui la “discesa” delle tribe prima dall’Inghilterra, con Spiral, Desert Storm, Hekate, Total Resistance, e poi dalla Francia, con OQP, Tomahawk, Ubiq e Metek, solo per citare i nomi più significativi, si fuse con le energie preesistenti, a volte legate alla trance, essa pure agli albori (chi ricorda le serate goa, con tanto di smart bar, all’occupazione dell’Indiano?), e più spesso al punk hardcore o all’hip-hop, tutte realtà quasi sempre orbitanti attorno a qualche spazio autogestito. Per quanto Firenze si fosse quasi involontariamente trovata all’avanguardia – le primissime feste Spiral Tribe in Italia, già tra il ’95 e il ’97, furono all’Osmannoro, periferia industriale fiorentina, in vari capannoni abbandonati di cui il più memorabile fu senz’altro quello della “Fabbrica dei Frutti Canditi” – da noi non ebbe luogo il radicamento visto altrove, con esperienze più o meno fortunate, come il leggendario Livello 57 (a Bologna) o la sinistra Fintech (a Roma) e la nascita di una pletora di crew. A Firenze, al netto di esperienze di minor durata, come crew tekno c’erano solo gli OTK, e la scena rave fiorentina conobbe un’epoca d’oro piuttosto tardiva, quando, a partire dal 2003 (e dalla cruciale esperienza dell’Elettro+), si affermò il festone annuale della “72-ore”, peraltro portatore di una commistione tekno e goa non vista altrove; ma quelli erano anni in cui il movimento stava letteralmente esplodendo, c’erano feste importanti ogni settimana e anche le città minori avevano il loro “local soundsystem”. Prima di allora, alla fine degli anni ’90 e ancora nei primi anni Zero, noi ragazzi della provincia fiorentina che, come tanti degli intervistati di Rave in Italy, avevamo scoperto che l’elettronica non era necessariamente roba da tamarri e che, combinata con un approccio libertario e psichedelico, poteva portare a esperienze di liberazione personale e collettiva ben più significative di quelle che mai avrebbe offerto il solito concertino hardcore, dovevamo necessariamente guardare fuori. Il festone poteva essere in campo aperto – Sassomarconi, Bolsena, Aprilia, Bassano del Grappa sono nomi che fanno ancora rizzare i peli sulle braccia a chi ha vissuto la prima parte della storia del movimento – ma le città erano quelle: Milano, Roma, Torino, Bologna; quelli i luoghi in cui si progettava, anzi si realizzava, il futuro.
E tra i meriti di Rave in Italy, al di là della pura documentazione, c’è quello di mostrare in modo efficace quanto il movimento, agli albori, prima delle beghe, del business, dell’omologazione, dell’arrivo di droghe non psichedeliche che con l’aspirazione alla libertà c’entravano molto poco, fosse anzitutto un movimento militante, che dietro una (pur esaltante) aspirazione al caos, aveva piena coscienza della propria natura politica e di cosa significasse creare zone autonome tanto a livello fisico quanto mentale. Da far leggere – a forza – ai grulli che, non trovando di meglio (o meglio, non essendo in grado di trovare e prendersi di meglio), hanno “occupato” per una festa di capodanno uno spazio già occupato, la Fornace di Rho, senza prima consultarsi coi suoi militanti.